“La vista, Björn. Per la maggior parte degli umani è quello il senso più importante. L’avevo letto da qualche parte, quando ancora non vivevo qui alla Stazione.”
“Sul serio?! Certo che siete strani, voi umani: a cosa vi serve la vista quando la neve è così fitta da non vedere a un palmo dal muso? O se il cielo è nuvoloso in piena notte polare? E con gli spiriti, appunto, come la mettiamo? Pensate forse di vederli?”, dice, calcando il tono canzonatorio sull’ultima parola.
“Dai, è un discorso che abbiamo già fatto milioni di volte. Voi orsi e noi umani abbiamo… storie diverse”, rispondo, mentre appoggio su un piattino arancione la fetta di torta alle carote e noci che ho appena tagliato. Quelli arancioni sono i miei preferiti fra tutti i piatti della Stazione: un insieme variegato di stoviglie di recupero, dove il numero più alto di rappresentanti dello stesso servizio arriva forse a cinque. Adoro aprire la credenza e scegliere il piatto giusto per ogni ospite, in mezzo a tutta quella varietà.
Anche i cassetti delle posate sono una gioia per gli occhi. Da lì ho pescato una bella forchetta da dessert in argento con il manico decorato da un motivo in rilievo. Björn lo nota e fa un sorriso a metà fra l’”ormai ti conosco” e il “fai come vuoi”.
“Oh Björn!”, dico un po’ spazientita, “Il fatto che sia invisibile non significa che non apprezzi la cura. La cura è una coccola e noi siamo i suoi ospiti, quindi…”
“Certo, certo. Se la metti così…”
“Piuttosto, dimmi Björn, lo servi tu o lo servo io?” chiedo con fare pratico. “Non vorrei fare gaffe tipo appoggiare la merenda su una sua… zampa? Mano? Non so… Com’è fatto uno sind’nsjel?”
“Non saprei, sielo. Non si è mai reso visibile a nessuno fra gli Orsi. Ma, come dice il proverbio, spirito in cambusa, cuore aperto, bocca chiusa”, risponde Björn con tono solenne.
“E che cosa significa?”, domando, alzando gli occhi al cielo.
“Che uno spirito si ascolta, umana. Perché ha tante cose da rivelare”, mi risponde una voce dietro di me. Il piattino con la fetta di torta e la forchettina si alzano a mezz’aria e si dirigono verso la porta che collega la cucina col salone. Sto ancora cercando di riprendermi dallo stupore quando la voce parla di nuovo: “Beh, che fate lì impalati? Non vorrete far mangiare da solo il vostro ospite”.
Mentre piatto e forchetta spariscono oltre lo stipite, una gomitata di Björn ben assestata mi fa uscire dal mio stato catatonico. “Sielo, ci sei? Hai sentito?”, chiede. Vedendo la mia espressione un po’ assente, aggiunge: “Dai, taglia un paio di fette in più e raggiungici in sala”. Poi infila la porta con la sua solita camminata ciondolante e la tranquillità di chi non trova nulla di strano in un piatto e una forchetta volanti. Forse, maligno fra me e me, ha fatto arrabbiare sua madre qualche volta di troppo.
Il racconto dello spirito
“Non ho nome. Proprio come te, sielo. Gli Orsi mi chiamano sind’nsjel, che significa più o meno spirito che vede. Io e i miei fratelli siamo figli dello hjsogūf, lo spirito del tempo e del luogo, e nel tempo e nei luoghi ci muoviamo.
Sono nato l’ultima sera d’estate, alla fine di un temporale improvviso. Lo hjsogūf planava sulla campagna di un villaggio che si trova a una giornata di cammino dal Mare del Nord, quando iniziò a piovere e poi a tuonare. Si fermò quindi al centro di un grande prato per farsi attraversare dalle gocce, farsi pettinare dal vento e godersi lo spettacolo dei lampi nel cielo.
Alla fine del temporale, lo hjsogūf stava per riprendere il suo volo quando notò che il prato era tutto un luccichio. Si fermò incuriosito e si mise a contemplare la distesa d’oro sotto di lui, resa tale dall’incontro fra l’acqua e il giallo delle foglie secche, ora dissetate dopo una lunga attesa.
Tanta era la bellezza che quelle piante aride erano ancora in grado di regalare, che lo hjsogūf non riusciva staccare la vista, ammaliato com’era. Fu così che si commosse, pensando che era bastato uno sguardo, uno sguardo d’amore, a fare tutta la differenza.
Uno sguardo pieno di potenza, pensò, in grado di cambiare destini e di generare stupore. Lo hjsogūf decise allora di regalare la sua lacrima a tutte le anime, perché ognuna di esse avesse la possibilità guardare e di essere guardata con gli stessi occhi con cui lui rimirava quel prato.
Quella lacrima ero io e non poteva toccarmi sorte migliore di essere portatore di possibilità, comprensione e bellezza. Da allora sono sempre, sono ovunque e sfioro le palpebre di tutte le anime, sperando che mi accolgano e che mi rendano parte del loro sguardo.
Vivo nelle parole che invitano a riprovare, nelle mani che raccolgono ciò che è rimasto a terra, nella colla che ripara, nell’ago che rammenda, nella mente che crea, nell’espressione autentica e coraggiosa. E in tante altre cose.”
Lo sind’nsjel interrompe qui il suo racconto e tra di noi si fa largo il Silenzio. Della fetta di torta dello spirito non è rimasta nemmeno una briciola: nel piatto arancione c’è solo la forchetta, appoggiata di traverso come a volerlo dividere perfettamente a metà.
Fatico a nascondere il disagio di restare sospesa tra il silenzio dello sind’nsjel e la sua invisibilità, mentre Björn, abituato a percepire il mondo con ognuno dei suoi sensi, rimane ancora una volta impassibile.
E allora cerco di non muovermi da lì, di fermarmi dentro a quel disagio per fargli largo e ascoltarlo. Così chiudo gli occhi, prendo fiato e quando li riapro, lo vedo: lo sind’nsjel. Lo vedo in quel vecchio piatto orfano del suo servizio e in quella forchetta superstite. Lo vedo nell’improbabile amicizia fra un orso polare e un’umana. Lo sento nel profumo di un pranzo preparato con cura che cuoce nel forno. Lo vivo in questa stessa Stazione, rifugio per tutte le anime che ne hanno bisogno.
Vita plantigrada - Il link alla raccolta di traduzioni dal plantigradese e di usanze della Terra degli Orsi polari.
Un caffè immaginario
Un semplice esercizio d’immaginazione da fare in dieci minuti
Guardati intorno, nel posto in cui ti trovi mentre leggi o ascolti, e scegli un oggetto di uso comune. Può essere una cosa qualsiasi: ad esempio un bicchiere, l’autobus su cui viaggi, il giornale che sta leggendo la persona di fronte a te, il cucchiaino con cui ha mescolato il tuo caffè… ☕️
Osserva per bene quell’oggetto e rifletti un attimo sulle sue caratteristiche: di che materiale è fatto? Qual è la sua funzione? Perché ha proprio quella forma? 🤔
Fatto? Ora immagina di rendere quell’oggetto inservibile per la funzione che ha di solito: il bicchiere si spezza a metà, l’autobus resta senza due ruote, dal giornale vengono ritagliate tutte le vocali, il cucchiaino si piega a forma di u e così via. 🥄
Bene, adesso vai di immaginazione e prova a dare una nuova funzione all’oggetto rotto. Non fa niente se l’uso è assurdo e un po’ folle, anzi. Quindi, cosa si può fare con la metà di un bicchiere? O con un giornale di sole consonanti? 🗞
Sarei felice di sapere che oggetto hai scelto, come lo hai rotto e quale nuova funzione gli hai dato. Se ti va, scrivimelo nei commenti oppure, se mi leggi nella tua casella email, cliccando su “Rispondi”. Sono molto curiosa! 🔍
Cose bellebellissime che possiamo fare insieme
Immergerci nelle tue profondità con un percorso alla scoperta del tuo immaginario di brand.
Un tuffo in un servizio fotografico di branding per trovare tesori inaspettati.
Planare con una consulenza sulla tua comunicazione visiva, in cerca di nuove prospettive e nuove domande (meglio partire da quelle che dalle risposte, no?).
Immaginare insieme, dal vivo, in uno dei miei laboratori.
Chi sono
Sono Leda Mattavelli e per lavoro mi prendo cura della comunicazione visiva di piccoli brand e aziende. I miei strumenti sono la fotografia, la formazione e l’immaginazione.
Per saperne di più, puoi dare un’occhiata al mio sito, ledamattavelli.com, e al mio profilo su Instagram, dove mi trovi come leda_mattavelli.
La Stazione Boreale è un progetto che promuove l’uso dell’immaginazione e la creazione di un luogo di nuove possibilità e di dialogo. Le condivisioni di commenti, idee e sguardi sono quindi benvenute.
Grazie di aver letto La Stazione Boreale!
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