“Speravo mi desse più sollievo.”
“Björn, sei un orso di quasi 700 chili, cosa pretendi da un ventilatore portatile grande poco più del tuo naso?”
Mi fulmina con lo sguardo. Ho parlato di peso e Björn odia parlare di peso. L’unica cosa che ama pesare, dice, sono gli ingredienti delle torte.
“Queste temperature da queste parti sono così anomale. Quando pensi che smetterà di fare così caldo?”, chiedo, sperando di fargli dimenticare il mio scivolone.
Il muso di Björn si fa preoccupato, creando un contrasto molto buffo: davanti a me c’è un orso serissimo, stravaccato su una poltrona, che cerca di farsi aria con un aggeggio che nella sua zampa risulta minuscolo.
“Sielo1, cambiamo argomento, va’. A che ora arriva Nari con le albicocche? Non vedo l’ora di provare a fare quella rivisitazione della tarte Tatin”, mi risponde Björn.
“Aveva detto che sarebbe venuto all’ora di pranzo, così si fermava a mangiare con noi. Quindi dovrebbe essere qui fra p…”, vengo interrotta da un bussare dal ritmo allegro. È sicuramente K’vannar, Nari per gli amici, il giovane alce nipote del fruttivendolo. I suoi nonni materni si sono trasferiti qui dall’Alaska molti anni fa e sono amici di famiglia di Björn. A detta loro la vita laggiù è troppo frenetica e “troooppo Americana”, qualunque cosa questo voglia dire.
Quando apro il portone mi trovo davanti un alce sorridente con dei ciuffi di foglie di carote che gli penzolano dai palchi. Fra le zampe tiene una grossa cassetta di legno piena di frutta e verdura, fra cui spicca un gruppo ben nutrito di albicocche. “È qui la festaaa?”, chiede, facendo dondolare i ciuffi di carote. Riesce sempre a strapparmi un sorriso.
“Entra. Björn è in cucina a sfornare le lasagne al pesto”, gli dico, “aspettalo in sala, al solito tavolo. Io vado in dispensa a prendere il sidro”. E mentre percorro il corridoio che porta alla dispensa, vedo che il ventilatore portatile è finito del bidone destinato al negozio dell’usato.
Arrivare
Gli spiriti oggi sono allegri, amano la presenza di Nari. Come la frutta e la verdura che porta, Nari mette buon umore e non perché è raro vederlo triste. O non solo. Il punto è che in Nari la strada fra la vita e ciò che lui sente, sembra essere più corta, rendendo tutto più semplice, fluido, trasparente. Anche a chi gli sta accanto.
Passare del tempo con lui è sempre piacevole e quando mangia qui alla Stazione riesce persino a ridere delle battute terribili di Björn, che puntualmente me lo fa notare. “Lo vedi che sono divertenti?”, mi dice ogni volta.
A chi gli chiede da dove arrivi tutta quella luce, Nari risponde scherzando che ha fatto un sacco di bagni di Luna. Ma un giorno in cui era in vena di confidenze, mi aveva raccontato che non c’era nessun segreto.
“Semplicemente”, mi aveva detto, “questo è il modo di vivere e di prendere le cose che mi fa stare meglio”. Era un pomeriggio di mezzo inverno, quando la notte si alterna ancora al giorno.
Quella risposta mi sorprese, mi fece pensare a tutte le volte in cui avevo detto a me stessa che basta, la tal cosa nella mia vita sarebbe cambiata da quel giorno in avanti. E invece nulla era cambiato oppure per farlo ci sono voluti degli anni.
“E Nari quanto tempo ci ha messo, invece?”, mi chiese Björn quando gli confidai i miei pensieri. Ricordo ancora che eravamo in sala a carteggiare la credenza: era il periodo dell’anno in cui chiudiamo per pulire tutto a fondo e dare una sistemata generale.
“Uhm”, risposi senza rispondere. Björn sapeva già che non lo avevo chiesto a Nari.
“Sai, sielo”, continuò Björn, “abbiamo la tendenza a concentrarci sul risultato senza dare troppa importanza al processo, a quello che c’è fra una decisione e il punto dove ci porta. Secondo me, invece, è il processo la parte fondamentale: senza tutto quello che c’è nel mezzo, il risultato non arriverebbe mai”.
“Interessante”, risposi. “E secondo te perché sottovalutiamo il processo?”
Björn si prese qualche minuto. Mentre continuavo a carteggiare, vidi danzare in controluce la polvere dispersa dalla carta vetrata. Ricordo di aver pensato che sicuramente c’era di mezzo lo hjsogūf2.
“Non ho la risposta giusta, sielo”, mi disse infine Björn, servendomi su un piatto d’argento un’ottima occasione per fare dell’ironia. Occasione che però non colsi, per non interromperlo. Credetti di sentire lo hjsogūf darmi una pacca sulla spalla, in segno di approvazione.
“Però posso ipotizzare”, continuò Björn, “che sia perché spesso in un processo si sperimentano difficoltà, paure, delusioni, frustrazione, strade chiuse, errori, la disapprovazione delle persone che amiamo… e tante altre cose che sul momento sono spiacevoli. Nulla come i processi allena all’umiltà della strada da percorrere: bisogna fare il primo passo consapevoli che tutto, dal viaggio alla destinazione, potrebbe essere molto diverso da come ce lo eravamo immaginato. Se ci si apre alle possibilità, anziché concentrarsi solo sull’obiettivo, beh, ci sono buone probabilità che alla fine di quell’esperienza non saremo più gli stessi”.
“Beh, ma il risultato conta, no? Se non fosse importante arrivare, che senso avrebbe il viaggio?”, chiesi.
“Certo che conta”, rispose subito Björn, quasi si aspettasse quella domanda, “Ma, ecco, io non lascerei che il risultato predominasse su tutto, col rischio che diventi fine a stesso. Secondo me un buon risultato è qualcosa che, quando ci arrivi, ti fa desiderare di fare un altro passo”.
“Sielo, santa pelliccia, HO FAME! La dispensa è in fondo al corridoio, non nella Via Lattea”, mi urla Björn, riportandomi al presente. Afferro al volo un paio di bottiglie di sidro e urlo a mia volta che sto arrivando.
“Sto arrivando”, ripeto poi mentalmente. E sorrido ripensando a quella volta in cui, una domenica mattina mi sono svegliata prestissimo e mentre Björn e i nostri ospiti dormivano ancora, sono scivolata in cucina a fare un caffè che ho bevuto insieme allo St’llhätt3, seduta al tavolo vicino alla finestra tonda. Era piena estate polare e dalla finestra entrava una luce abbagliante che disegnava ombre nette e grafiche, così interessanti da far sembrare la sala un’opera d’arte astratta.
È in quel momento che si è presentata, inaspettata, la sensazione di esserci. Di essere arrivata. Chiamatelo casa, chiamatelo pace, chiamatelo punto fermo, chiamatelo posto giusto, chiamatelo come volete, tanto non è un posto ma un modo di stare nella vita. E proprio come aveva detto Björn, la sensazione, inedita, che provavo in quello stare era così bella da farmi venire voglia di scoprire cosa mi aspettava se solo avessi fatto un altro passetto fuori.
Vita plantigrada - La raccolta di usanze e parole della Terra degli Orsi Polari.
Un caffè immaginario
Un semplice esercizio d’immaginazione da fare in dieci minuti
Dopo ben due appuntamenti in cui abbiamo parlato di ombre, ci voleva una storia in cui si parla di luce, per cambiare un po’ registro. Anche l’esercizio che ti propongo questo mese è leggermente diverso e un po’ più impegnativo, rispetto a quelli che ti suggerisco di solito. ✨
Sono partita da qui: quando procedo all’analisi dell’immaginario con le mie e i miei clienti, l’invito è quello di pensare “fuori dallo schermo” e di lavorare alle bacheche e agli esercizi lasciando da parte Google, Instagram, Pinterest, intelligenza artificiale e compagnia. Questo perché quella analogica è la modalità che meglio si sposa col mio metodo di lavoro, nel quale queste piattaforme possono al limite essere degli strumenti da usare in un secondo momento e non la fonte primaria d’ispirazione. 🛠️
Che poi, anche utilizzandoli come strumenti si dovrebbe fare attenzione, se consideriamo che ci sono di mezzo algoritmi che si sostituiscono al nostro pensiero e alla nostra scelta attiva. È di questi giorni la notizia dello studio di un’università statunitense che ha rilevato che l’attività e le connessioni cerebrali sono minori quando si utilizza un’intelligenza artificiale, rispetto a quando si lavora di solo ragionamento. E se consideriamo che il cervello è un organo che possiamo in un certo senso allenare, ecco, forse sarà contento di dedicarsi al piccolo esercizio analogico che ti propongo. ✂️
Per iniziare, scarica il pdf dell'esercizio e stampalo con la stampante di casa o di una copisteria: non occorre una stampa di particolare qualità. 🖨️
Una volta che avrai i due fogli fra le mani, ti invito a scrivere la tua storia personale con carta e penna, utilizzando sette (non uno di più, non un di meno) degli elementi che vi trovi rappresentati. Inizia scegliendo gli elementi e ritagliandoli. Il resto del processo da seguire, sceglilo tu: puoi partire subito col testo, oppure puoi creare un collage con gli elementi scelti, integrandoli o meno con parole, con brevissimi testi, con qualche disegno… insomma, fai tu. Scegli la strada che ti viene spontanea, l’importante è che tu successivamente scriva, in poche righe, la tua storia, integrandovi a vario titolo i sette elementi che hai selezionato. 🪶
Tu e la Stazione
Com’è andata con questo esercizio? Sono nati nuovi punti vista, spunti o riflessioni mentre leggevi le ultime dalla Stazione? Se ti va di condividere la tua esperienza o i tuoi pensieri, puoi scrivermi utilizzando i commenti oppure – se mi leggi nella tua casella email – rispondendo alla mia lettera. ✒️
Ti leggerò e ti risponderò a mia volta con grande piacere! 💬
Cose bellebellissime che possiamo fare insieme
Immergerci nelle tue profondità con un percorso alla scoperta del tuo immaginario di brand.
Un tuffo in un servizio fotografico di branding per trovare tesori inaspettati.
Planare con una consulenza sulla tua comunicazione visiva, in cerca di nuove prospettive e nuove domande (meglio partire da quelle che dalle risposte, no?).
Immaginare insieme, dal vivo, in uno dei miei laboratori.
Chi sono
Sono Leda Mattavelli e per lavoro mi prendo cura della comunicazione visiva di piccoli brand e aziende. I miei strumenti sono la fotografia, la formazione e l’immaginazione.
Per saperne di più, puoi dare un’occhiata al mio sito, ledamattavelli.com, e al mio profilo su Instagram, dove mi trovi come leda_mattavelli.
La Stazione Boreale è un progetto che promuove l’uso dell’immaginazione e la creazione di un luogo di nuove possibilità e di dialogo. Le condivisioni di commenti, idee e sguardi sono quindi benvenute.
Che bello che tu sia fra gli ospiti della Stazione Boreale! Grazie! ❄️
Se sei nuova o nuovo di queste parti e ti piacerebbe tornare (fuor di metafora, ricevere i racconti della Stazione e sostenere questo progetto di immaginazione), puoi iscriverti gratuitamente qui.
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italianizzazione della parola plantigradese själl, “anima”. Gli orsi utilizzano questa parola per rivolgersi al loro interlocutore: per gli orsi parlare all’anima di chi hanno davanti, umano o altro animale che sia, è una naturale forma di rispetto.
Spirito del tempo e del luogo, “somma di quello che è, era ed è sempre stato, l’eredità delle vite vissute e passate di lì, riscaldata dallo splendore delle vite che ora quel luogo lo abitano e lo riempiono della loro energia. Uno hjsogūf è un ricordo privo di nostalgia, è ciò che è stato al netto di tutto.”
Il Silenzio
Il viaggio si comincia a vedere quando è lungo, lunghissimo. Ogni volta, ad ogni stazione, si pensa: ecco, è qui che sto. Ed è vero. Ma poi il treno va, e ci vuole tempo, verso un'altra stazione.
Proprio oggi ho scoperto che cosa stavo facendo quando mi sono inventato, anni fa, una specie di calligrafia a pennello. Allora pensavo che fosse arte, come trasformare una parola, che fa parte di una qualsiasi storia, in un'immagine. Certo, c'era anche quello, era quella la stazione, ma adesso so che c'era anche dell'altro: stavo facendo una cosa che sarebbe servita dopo, nel viaggio, tre o quattro stazioni oltre. E infatti il tuo spazio si chiama 'Stazione'.
Brava Leda, come sempre sei di ispirazione. Grazie!